Ad un certo punto della seduta, ieri il Nasdaq, il listino tecnologico per eccellenza, è arrivato a perdere il 2,7%, per poi chiudere a + 0,14%, con un recupero di quasi 3 punti rispetto ai minimi. L’ennesima conferma del particolare momento che i mercati stanno vivendo, con la volatilità tornata protagonista: non a caso, il Vix, l’indice che ne replica l’andamento, è tornato oltre i 20 punti.
Il tema ormai è noto: il “cambio di marcia” impresso da alcune Banche Centrali, con in testa la FED americana, ha, almeno per il momento, fatto “perdere la bussola” agli operatori, combattuti tra il chiudere (o almeno alleggerire) le posizioni sul fronte azionario e riposizionarsi su asset che già in partenza si sa non potranno assicurare livelli di performance come quelli conseguiti negli ultimi 2 anni (e che potrebbero comunque, anche se in maniera più “controllata”, mettere a rischio il capitale) o se, invece, mantenere il posizionamento attuale, ritenendo che, come già in altre recenti occasioni, ci si trovi di fronte a naturali (e salutari) storni di mercato e non, invece, all’inizio di una fase di caduta dei mercati. Insomma, per usare un termine ormai diventato “luogo comune”, che continui a prevalere “TINA”, vale a dire il “there is no alternative” su cui molti investitori e operatori hanno costruito portafogli che hanno largamente premiato la propensione al rischio.
Alcune certezze, peraltro, stanno iniziando a venire meno.
Negli USA ormai si danno per scontati 3 aumenti dei tassi entro l’anno, ma c’è chi comincia a parlare addirittura di 4. Non solo: pare che la Banca Centrale possa cominciare a ridurre il proprio bilancio, passato in circa 2 anni da $ 4000 MD a quasi 9.000 MD, quindi non solo smettendo, come preannunciato, di comprare bond ma addirittura dando il via alla loro vendita. Anche per questo il rendimento dei treasury USA in questi giorni è arrivato a toccate l’1,8%, un livello che non vedevano dal gennaio 2020, appena prima dello scoppio della pandemia (anche se ieri, quasi paradossalmente, è leggermente sceso all’1,77%, fattore che indubbiamente ha aiutato il recupero del Nasdaq, “infarcito” di società “growth”, quelle a più alto tasso di crescita, ma, proprio pe questo, fortemente indebitate e quindi altamente esposte all’eventuale rialzo dei tassi, elemento che andrebbe ulteriormente a penalizzare i spesso già fragili bilanci).
Inoltre è atteso per domani il nuovo dato sull’inflazione, “vista” al 7%, in ulteriore aumento rispetto a dicembre: diventa pertanto sempre più arduo per i sostenitori della sua “temporaneità” sostenere questa tesi.
Sul fronte europeo, come noto, le cose stanno un po’ diversamente, come il capo economista BCE Philipe Lane conferma ancora oggi in una lunga intervista a Il Sole 24ore. Anche da noi l’inflazione ha visto una crescita preoccupante, arrivando a toccare il 5%. Ma viene dato quasi per certo che “rientrerà nei ranghi”, toccando, per il 2023 e il 2024, livelli ben inferiori (1,8%). Il che consentirà alla Banca Centrale Europea di non accelerare l’introduzione di politiche restrittive che metterebbero a rischio la ripresa di molti Paesi, in special modo quelli, come il nostro, gravati dal peso di un debito pubblico pericolosamente elevato e per quali un rialzo anche modesto dei tassi provocherebbe uno shock che andrebbe ad azzerare tutto ciò che di buono è stato fatto nell’ultimo anno.
Questo limitando lo “sguardo” alle pure evidenze macro-economiche, senza alcuna “implicazione” politica, questa sì fonte di gravi tensioni. Un prezzo che l’Italia non potrebbe permettersi e che dovrebbe consigliare, in un periodo nuovamente particolarmente difficile, maggiore lungimiranza e la necessità di anteporre il bene comune alle “scaramucce” elettorali. E’ sotto gli occhi di tutti che il nostro Paese, nel momento in cui si muove con passo deciso e senza incertezze, con programmi precisi e adeguati, non è secondo a nessuno: lo stanno a dimostrare anche i dati di cui tutti i quotidiani oggi parlano relativi ai livelli occupazionali, quasi tornati ai livelli pre-covid: a novembre sono stati 700.000 i nuovi posti di lavoro recuperati nel 2021, con un ulteriore incremento di 64.000 unità rispetto al mese di ottobre. Oramai siamo di nuovo a 23 ML di occupati totali (a gennaio 2020 si era a circa 23,2 ML), pari ad un tasso di occupazione (sul totale della popolazione) del 58,9%, comunque tra i più bassi di Europa (di contro abbiamo oltre 16 ML di pensionati e ben 13,3 ML di “inattivi”…). Pensare che tra poche settimane potremmo essere non solo senza Draghi, ma anche senza un Governo non può che lasciare per lo meno perplessi.
Detto del recupero di ieri a Wall Street (per quanto il Dow Jones abbia comunque lasciato sul terreno lo 0,45% e lo S&P lo 0,14%), nella notte i mercati asiatici hanno tutto sommato contenuto le perdite. Il Nikkei, ieri chiuso per festività, ha perso lo 0,90%, mentre Shanghai si avvia ad una chiusura con un calo intorno allo 0,7%. Meglio va per Hong Kong, che lascia sul terreno circa lo 0,15%, sostenuta ancora dai titoli tech.
In recupero il petrolio, con il WTI a $ 78,8, + 0,8%.
Tiene quota $ 4 il gas naturale, per quanto scivoli dell’1,4%.
Recupera quota $ 1.800 l’oro, che sale dello 0,5% a $ 1.809.
Dopo la primissima mattinata in caduta, i futures recuperano la parità negli USA mentre in Europa si posizionano su valori superiori al + 0,50%.
Le rinnovate tensioni politiche sul futuro del Governo Draghi si ripercuotono immediatamente sullo spread, che arriva a sfiorare i 140 bp, con il rendimento del BTP che “galoppa” verso l’1,40%, visto che il bund a 10 anni oramai è alla soglia dello zero.
Recupera leggermente l’€, con il $ che si porta a 1,1337.
Nella notte il bitcoin è sceso sotto la soglia dei $ 40.000, mentre in questi minuti sembra aver ritrovato un minimo di forza, riportandosi a $ 42.000.
Ps: siamo lontani, almeno temporalmente, dal lockdown dell’anno scorso. Ma, nei fatti, ci siamo di nuovo pericolosamente avvicinati a quella fase. Circa 5 ML di persone lavorano nuovamente in smart working, il 32% dei cittadini italiani ha disdetto o rinunciato ad un viaggio, il 57% è tornato ad osservare più attentamente le distanze personali, il 51% ha ridotto o evitato la frequentazione di bar e ristoranti, il 40% ha limitato i contatti con i familiari, etc etc. Guardiamo però con fiducia a quanto sta succedendo in Gran Bretagna e speriamo che anche da noi si arrivi presto all’inversione della rotta.